Piero Craveri
Egr. Prof. Craveri,
mi sono chiesto diverse volte se fosse o meno il caso di scriverLe questa lettera. Mi sono deciso a farlo solo quando mia madre ha ritrovato le fotografie che Le trasmetto in allegato, che La ritraggono ancora bambino insieme a mia nonna Renata, che Le faceva da balia.
Quando arrivò dal Veneto, mia nonna trovò lavoro presso la famiglia Croce. Visto che tra le persone di servizio c’era già un’altra Renata, venne ribattezzata Ida. Scoprire che mia nonna aveva un altro nome suonava strano alle mie orecchie di bambino.
Ricordo alcuni episodi, tra i tanti che mi ha raccontato, forse perché mi avevano colpito particolarmente. Mia nonna passeggiava spesso insieme a Lei, anche quando l’inverno si faceva vicino e la temperatura scendeva. Per scaldarsi e fare una sosta, entravate in chiesa. L’immagine di un bambino che cammina al freddo con i pantaloni corti mi ha sempre lasciato perplesso, forse perché nella mia mente contrastava con la sua appartenenza a una famiglia benestante.
Tra i ricordi di mia nonna c’era anche un pranzo a casa Agnelli. La tavola principale era riservata agli adulti, mentre i bambini erano seduti a un tavolo a parte, ognuno con la propria tata alle spalle, pronta a intervenire in caso di necessità. I bambini separati dai genitori, probabilmente per non disturbare, è un dettaglio che mia nonna associava alla solitudine, in agguato anche e soprattutto in una casa così ricca e importante.
Di un altro episodio ho un ricordo un po’ nebuloso. Il giardino della casa in cui vivevate confinava con una zona in cui c’erano dei militari, probabilmente di leva. Lei era attratto da questi personaggi e cercava sempre di andare a parlare con loro. “Come state?” chiedeva. “L’è naja!” rispondevano i militari con rassegnazione. Questa espressione Le era piaciuta molto. Così, quando mia nonna La chiamava per fare il bagno, si sentiva rispondere “Eh, baba, l’è naja!”
La padrona di casa (non so se si trattasse di Sua madre o di Sua nonna) non consegnava a mia nonna tutto lo stipendio, perché aveva paura che lo spedisse interamente ai parenti lasciati in Veneto, privandosi anche del necessario. La signora accantonava una parte del mensile su un libretto. Glielo diede interamente quando il loro rapporto di lavoro finì: non ricordo a quanto ammontasse la cifra, ma agli occhi di mia nonna pareva esorbitante.
Mia nonna smise di lavorare in casa vostra perché Lei era cresciuto e la Sua famiglia pensava che avrebbe dovuto avere accanto qualcuno che l’aiutasse nell’istruzione, “che conoscesse le lingue” diceva spesso mia nonna.
Ho voluto condividere con Lei questi frammenti di passato perché, in parte, noi siamo ciò che ricordiamo, e lasciar spegnere i ricordi di mia nonna corrisponderebbe quasi a lasciar svanire la sua immagine. E questa è l’ultima delle cose che desidero.
Spero di averLe fatto cosa gradita, e approfitto dell’occasione per rivolgere a Lei e alla Sua famiglia i migliori auguri di buone feste.
mi sono chiesto diverse volte se fosse o meno il caso di scriverLe questa lettera. Mi sono deciso a farlo solo quando mia madre ha ritrovato le fotografie che Le trasmetto in allegato, che La ritraggono ancora bambino insieme a mia nonna Renata, che Le faceva da balia.
Quando arrivò dal Veneto, mia nonna trovò lavoro presso la famiglia Croce. Visto che tra le persone di servizio c’era già un’altra Renata, venne ribattezzata Ida. Scoprire che mia nonna aveva un altro nome suonava strano alle mie orecchie di bambino.
Ricordo alcuni episodi, tra i tanti che mi ha raccontato, forse perché mi avevano colpito particolarmente. Mia nonna passeggiava spesso insieme a Lei, anche quando l’inverno si faceva vicino e la temperatura scendeva. Per scaldarsi e fare una sosta, entravate in chiesa. L’immagine di un bambino che cammina al freddo con i pantaloni corti mi ha sempre lasciato perplesso, forse perché nella mia mente contrastava con la sua appartenenza a una famiglia benestante.
Tra i ricordi di mia nonna c’era anche un pranzo a casa Agnelli. La tavola principale era riservata agli adulti, mentre i bambini erano seduti a un tavolo a parte, ognuno con la propria tata alle spalle, pronta a intervenire in caso di necessità. I bambini separati dai genitori, probabilmente per non disturbare, è un dettaglio che mia nonna associava alla solitudine, in agguato anche e soprattutto in una casa così ricca e importante.
Di un altro episodio ho un ricordo un po’ nebuloso. Il giardino della casa in cui vivevate confinava con una zona in cui c’erano dei militari, probabilmente di leva. Lei era attratto da questi personaggi e cercava sempre di andare a parlare con loro. “Come state?” chiedeva. “L’è naja!” rispondevano i militari con rassegnazione. Questa espressione Le era piaciuta molto. Così, quando mia nonna La chiamava per fare il bagno, si sentiva rispondere “Eh, baba, l’è naja!”
La padrona di casa (non so se si trattasse di Sua madre o di Sua nonna) non consegnava a mia nonna tutto lo stipendio, perché aveva paura che lo spedisse interamente ai parenti lasciati in Veneto, privandosi anche del necessario. La signora accantonava una parte del mensile su un libretto. Glielo diede interamente quando il loro rapporto di lavoro finì: non ricordo a quanto ammontasse la cifra, ma agli occhi di mia nonna pareva esorbitante.
Mia nonna smise di lavorare in casa vostra perché Lei era cresciuto e la Sua famiglia pensava che avrebbe dovuto avere accanto qualcuno che l’aiutasse nell’istruzione, “che conoscesse le lingue” diceva spesso mia nonna.
Ho voluto condividere con Lei questi frammenti di passato perché, in parte, noi siamo ciò che ricordiamo, e lasciar spegnere i ricordi di mia nonna corrisponderebbe quasi a lasciar svanire la sua immagine. E questa è l’ultima delle cose che desidero.
Spero di averLe fatto cosa gradita, e approfitto dell’occasione per rivolgere a Lei e alla Sua famiglia i migliori auguri di buone feste.
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