Salone del Libro
È finita. Anche per quest’anno ci siamo tolti il dente. Il sipario è sceso sul Salone del Libro.
Mi metto nei panni di un visitatore che entra tanto per fare un giro. Dove va? Un reticolo sterminato di corridoi e numeri civici lo inghiotte con la sua immensità, l’aria condizionata, le persone che si accalcano… cosa fai? Vai da Mondadori, da Feltrinelli, da Garzanti, perché negli altri stand ti perdi: ce ne sono troppi e li guardi appena mentre cammini, coi piedi doloranti, con lo sguardo distratto e sufficiente. Insomma, al posto di andare nella libreria sotto casa, o in quella in centro, vado al Salone perché lì c’è l’happening, c’è Moccia, c’è (spassosissimo) Natalino Balasso con Cirri&Solibello di Caterpillar, c’è il lucidissimo Fruttero. Lo dicevo già un annetto fa in una lettera a Gabriele Ferraris e ne sono ancora convinto adesso: nessuno può competere con l’Evento.
Credo che l’unico motivo per andare al Salone è incontrare le piccole case editrici. Ho fatto un giro sabato mattina con Alessando Del Gaudio e Maurizio Cometto, e un altro con Valentina Rota il pomeriggio dopo (praticamente 3/4 di Fantastico d’autore). È stato utile e produttivo incontrare editori come Eumeswil, Gargoyle, Perrone o riviste come i Magazine della Delos. Un po’ meno entusiasmante è stato soffocare nel caldo terribile di Torino Comics che quest’anno (con)divideva lo spazio con il Salone, ma che, da buon figlio di un dio minore, non aveva diritto all’aria condizionata. O ancora assistere alla premiazione del concorso letterario Goblin4Africa, promosso dal negozio Goblin di Torino a favore del centro scolastico di Komuge, in Tanzania.
Due cose mi lasciano però molto perplesso. Fuori dal salone, come anche nelle vie del centro, vagano diversi ragazzi di colore che vogliono vendere i loro libri. La scena è sempre la stessa.
“Ciao amico.”
“Ciao.”
“Compra uno dei miei libri.”
“No, ti ringrazio. Sto andando al Salone.”
“Ma i miei libri parlano dell’Africa, ci sono fiabe, racconti popolari, roba interessante.”
“Ti ringrazio ma non mi interessano.”
“Prendine uno. Guarda se ti può piacere.”
“Ti dico che è bello anche senza prenderlo. Ma non mi interessa.”
“Allora dammi dei soldi.”
“Per cosa?”
“Perché bisogna aiutare gli scrittori africani.”
“E gli scrittori emergenti chi li aiuta?”
Generalmente li scaccio, ma con grazia, per poi domandarmi se i G.A.S.F. non sono un po’ come loro, venditori ambulanti di romanzi, costretti a proporre i propri volumi a un pubblico annoiato, a cui non frega proprio nulla di starli ad ascoltare. Forse era meno peggio quando vendevano fazzoletti di carta o rotoli di calze.
L’altra cosa che mi perplime (voce del verbo essere perplesso) è vagabondare nello spazio riservato alle piccole case editrici specializzate in autori esordienti: l’incubatore. Il nome è inquietante. Mi fa pensare a una macchina piena di fili in cui pulsa il cuore di un mostro deforme che da lì a poco si rivolterà contro coloro che l’hanno accudito. Ma non è ancora questo il peggio.
In mezzo agli stand, abbandonato tra i capannelli di aspiranti scrittori, aspiranti autori, aspiranti aspiranti, c’è uno spazio del tutto particolare. La sua presenza pare essere un messaggio lanciato dagli organizzatori ai G.A.S.F. in visita a Torino. Devi curare i mali derivanti da una vita votata alla lotta per pubblicare degnamente le cose che scrivi? Cerchi un antidoto alla nausea di una battaglia che sembra non finire mai? Hai bisogno di un momento di ristoro in questo lungo viaggio verso la pubblicazione di un libro? E allora vai allo stand dei vini e concediti una lunga, lunghissima pausa. Lì troverai tutto ciò di cui hai bisogno. No, non è un contratto di edizione. È un fluido miracoloso che, ingerito in quantità copiose, ti aiuterò a dimenticare i guai della scrittura.
Grazie agli organizzatori del Salone.
Mi metto nei panni di un visitatore che entra tanto per fare un giro. Dove va? Un reticolo sterminato di corridoi e numeri civici lo inghiotte con la sua immensità, l’aria condizionata, le persone che si accalcano… cosa fai? Vai da Mondadori, da Feltrinelli, da Garzanti, perché negli altri stand ti perdi: ce ne sono troppi e li guardi appena mentre cammini, coi piedi doloranti, con lo sguardo distratto e sufficiente. Insomma, al posto di andare nella libreria sotto casa, o in quella in centro, vado al Salone perché lì c’è l’happening, c’è Moccia, c’è (spassosissimo) Natalino Balasso con Cirri&Solibello di Caterpillar, c’è il lucidissimo Fruttero. Lo dicevo già un annetto fa in una lettera a Gabriele Ferraris e ne sono ancora convinto adesso: nessuno può competere con l’Evento.
Credo che l’unico motivo per andare al Salone è incontrare le piccole case editrici. Ho fatto un giro sabato mattina con Alessando Del Gaudio e Maurizio Cometto, e un altro con Valentina Rota il pomeriggio dopo (praticamente 3/4 di Fantastico d’autore). È stato utile e produttivo incontrare editori come Eumeswil, Gargoyle, Perrone o riviste come i Magazine della Delos. Un po’ meno entusiasmante è stato soffocare nel caldo terribile di Torino Comics che quest’anno (con)divideva lo spazio con il Salone, ma che, da buon figlio di un dio minore, non aveva diritto all’aria condizionata. O ancora assistere alla premiazione del concorso letterario Goblin4Africa, promosso dal negozio Goblin di Torino a favore del centro scolastico di Komuge, in Tanzania.
Due cose mi lasciano però molto perplesso. Fuori dal salone, come anche nelle vie del centro, vagano diversi ragazzi di colore che vogliono vendere i loro libri. La scena è sempre la stessa.
“Ciao amico.”
“Ciao.”
“Compra uno dei miei libri.”
“No, ti ringrazio. Sto andando al Salone.”
“Ma i miei libri parlano dell’Africa, ci sono fiabe, racconti popolari, roba interessante.”
“Ti ringrazio ma non mi interessano.”
“Prendine uno. Guarda se ti può piacere.”
“Ti dico che è bello anche senza prenderlo. Ma non mi interessa.”
“Allora dammi dei soldi.”
“Per cosa?”
“Perché bisogna aiutare gli scrittori africani.”
“E gli scrittori emergenti chi li aiuta?”
Generalmente li scaccio, ma con grazia, per poi domandarmi se i G.A.S.F. non sono un po’ come loro, venditori ambulanti di romanzi, costretti a proporre i propri volumi a un pubblico annoiato, a cui non frega proprio nulla di starli ad ascoltare. Forse era meno peggio quando vendevano fazzoletti di carta o rotoli di calze.
L’altra cosa che mi perplime (voce del verbo essere perplesso) è vagabondare nello spazio riservato alle piccole case editrici specializzate in autori esordienti: l’incubatore. Il nome è inquietante. Mi fa pensare a una macchina piena di fili in cui pulsa il cuore di un mostro deforme che da lì a poco si rivolterà contro coloro che l’hanno accudito. Ma non è ancora questo il peggio.
In mezzo agli stand, abbandonato tra i capannelli di aspiranti scrittori, aspiranti autori, aspiranti aspiranti, c’è uno spazio del tutto particolare. La sua presenza pare essere un messaggio lanciato dagli organizzatori ai G.A.S.F. in visita a Torino. Devi curare i mali derivanti da una vita votata alla lotta per pubblicare degnamente le cose che scrivi? Cerchi un antidoto alla nausea di una battaglia che sembra non finire mai? Hai bisogno di un momento di ristoro in questo lungo viaggio verso la pubblicazione di un libro? E allora vai allo stand dei vini e concediti una lunga, lunghissima pausa. Lì troverai tutto ciò di cui hai bisogno. No, non è un contratto di edizione. È un fluido miracoloso che, ingerito in quantità copiose, ti aiuterò a dimenticare i guai della scrittura.
Grazie agli organizzatori del Salone.
Commenti
Sono tornato perchè nella notte, passata la depressione, ho pensato di portare una copia di Rethor&Lithil allo stand dell'Armenia. E così ho fatto il giro daccapo.
I venditori ambulanti erano di Milano? Pensa che quando li ho visto ho detto "sono uguali a quelli che mi hanno assalito fuori dalla mostra di Kandinsky..." Non erano uguali: erano gli stessi!!!
sono decisamente una mente debole!