L’infinito finisce qui

Conto le gocce. Quattordici, quindici, sedici. Arrivato a diciassette ho un istante di esitazione. Di solito mi fermo, ma oggi è diverso. Proseguo fino a venticinque, poi mi dirigo verso il mobile bar. Mi verso due dita di whiskey e bevo una lunga sorsata.
Fino a qualche mese fa non mi sarebbe venuto in mente né di assumere psicofarmaci né di bere superalcolici, e men che mai di fare entrambe le cose contemporaneamente. Poi, una mattina, mi sono alzato dal letto con una consapevolezza lucida e precisa: la mia vita poteva finire in quel momento senza che me ne importasse nulla. Nessun rimorso o rimpianto, solo la constatazione di aver esaurito tutte le opportunità e di non potervi porre rimedio in nessun modo.
Ricordo di essere andato in terrazzo e di essermi sporto oltre la siepe. Avrei potuto scavalcare con facilità, lasciandomi cadere di sotto. Ero calmo e tranquillo: non avevo perso il controllo, anzi, sentivo di non aver mai visto le cose con una tale chiarezza, ben lontana dalla follia e dall’ossessione.
Anche adesso cammino verso il terrazzo. Ma non ho intenzione di suicidarmi. Se l’avessi fatto, oggi mi sarei privato della possibilità di vivere questi ultimi momenti.
Il cielo si è offuscato ed è squarciato da lampi improvvisi. La scosse di terremoto si inseguono aprendo evidenti crepe nei muri dei palazzi. Sento le voci isteriche delle persone assiepate nelle strade. Un sordo rimbombo cresce in lontananza, come l’annuncio di un disastro di impellente. Se accendessi il televisore verrei investito da immagini di devastazione catturate in tutti gli stati. È per questo che non lo faccio.
Mi siedo e guardo al di là della siepe, oltre la quale non c’è l’infinito ma un mondo che finisce. Sono felice di non essermene andato prima, anche se, adesso che è la Terra ad aver scelto per me e per tutti, la cosa non ha più importanza.
Mi metto comodo e alzo gli occhi al cielo. Bevo un altro sorso di whiskey e, serenamente, attendo che tutto sia finito.



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