I miei primi dieci anni

I numeri tondi (cinque, dieci, venticinque, trenta…) ci danno l’impressione che sia obbligatorio fare il punto della situazione: da un lato quello che avremmo voluto o che ci siamo convinti di aver voluto, dall’altro quello che effettivamente stringiamo tra le mani. In questo anniversario non mi sottraggo a pagare pegno e ripenso a questi dieci anni. Quali dieci anni? I miei (primi?) dieci anni nella pubblica amministrazione.
Sono entrato in un comune per puro caso: non conoscevo nessuno, avevo messo alcuni esami di economica pubblica nel piano di studi tirando un dado, avevo saputo di un concorso e presentato domanda. Il lavoro pubblico aveva due requisiti per me fondamentali: mi avrebbe permesso di studiare nei pomeriggi liberi e soprattutto non richiedeva il milite assolto. Benissimo, sono entrato, non sputo nel piatto in cui mangio, anzi, difendo un mondo a volte ingiustamente bistrattato. Tuttavia non posso che chiedermi: cosa mi rimane dopo questi dieci anni?
Gratificazioni. Sembra sempre di fare un lavoro di serie b. Un vecchio compagno di scuola incontrato per caso: “Quanto tempo! Di cosa ti occupi?”. “Sono in comune.” “Ancora?” Nel senso: se lo fai finché studi va bene, anzi, lodevolissimo, ma poi devi diventare grande, cercarti un posto serio, che ti faccia guadagnare, con la macchina e altri benefit, altro che stare ad ammuffire in un ufficio pieno di carta. Sottinteso: se non hai fatto tutto ciò vuol dire che non vali poi così tanto, che non hai le capacità richieste dal Mitico Mondo del Privato, eccetera eccetera. Gratificante, vero?
Cambiamento. In questi dieci anni ho visto la pubblica amministrazione cambiare. All’università studiavo su libri degli anni settanta e mi chiedevo perché: non c’era nulla di più aggiornato? I libri parlavano di separazione tra potere di indirizzo dei politici e attività amministrativa dei funzionari, di responsabilizzazione, di efficacia ed efficienza. Ho visto applicare questi concetti solo anni di lavoro e solo allora ho capito: non c’era bisogno di aggiornare i libri finché i principi in essi contenuti non avessero trovato pratica applicazione. Su, vent’anni non sono poi così lunghi! Però adesso questi concetti sono patrimonio comune: c’è sempre strada da fare, ma non bisogna nascondere i passi da gigante compiuti.
Efficienza? No, buoncuore. Credo che una quota ancora troppo grossa dell’efficienza sbandierata da più parti sia lasciata al buoncuore delle persone assunte nella P.A. La madre di un mio amico sosteneva che chi lavora il primo giorno in cui è assunto in un comune lavorerà per tutta la vita, mentre chi non lavora il primo giorno… Questo era vero negli anni sessanta ma, in parte, è ancora vero oggi. E allora risolviamo il problema una buona volta: ci sono persone serie e capaci e altre no, ma proprio no? Diamo peso alle prime ed eliminiamo le seconde. Solo che poi…
Stipendi. Vogliamo che il pubblico cambi? E allora cambiamolo! Aumentiamo le responsabilità a tutti i livelli, diamo possibilità di licenziare, snelliamo tutto quello che può essere snellito, togliamo fondi e personale ai grandi carrozzoni, facciamo sì che meritocrazia non sia solo una parola altisonante con cui riempirci la bocca… fatto tutto questo mi aumentate lo stipendio? No, perché non si può aumentare la spesa, anzi, va ridotta dell’1% rispetto al 2004. E allora chi me lo fa fare di lavorare nel pubblico? Se le condizioni di lavoro diventano veramente paritarie (e su questo sono più che d’accordo) perché non devo vedermi applicati gli stessi trattamenti economici del privato? A parità di livello, mansioni, responsabilità, condizioni di lavoro… perché non dovremmo essere uguali anche in quello? Perché a quel punto, potendo scegliere, andremmo a lavorare dove tutti sono bravi, efficienti, carismatici, realizzati e ben pagati, cioè nel privato? Ah, giusto, è quello il motivo. E allora facciamo come Peter Pan e rifiutiamoci di crescere. In questi anni la P.A. è passata da infante ad adolescente: no, non completiamo il processo facendo altri passi avanti perché poi le cose andrebbero troppo bene. In Italia non ci siamo abituati.
Parassiti. Lavori nel pubblico? Sei un parassita della società. Costi troppo, non sei capace a fare il tuo lavoro, anche quando lo fai bene è comunque un lavoro inutile o quantomeno con enormi margini di miglioramento, l’efficienza passa per l’eliminazione della Pubblica Amministrazione, lasciate fare ai privati perché privato è meglio e così via. È vero? In parte sì, solo che in Italia c’è la tendenza (a tutti i livelli) a fare di tutta l’erba un fascio. Non ho ancora visto nessuno distinguere tra amministrazioni efficienti, quelle con poco personale, dedite al risparmio, che cercano di non sprecare, snelliscono i procedimenti e riducono le code, e quelle che non sanno neanche cosa sia l’efficienza. Nessuno fa questa distinzione perché tutti partono dal presupposto che Amministrazione Efficiente sia un personaggio nato dalla fantasia di un autore di storie per bambini, un po’ come Paperino, Harry Potter o il Signor Bonaventura.
E allora? Allora mi sento un po’ scemo. Difendo il buono che vedo ogni giorno, i miglioramenti che ci sono stati, mi batto perché di miglioramenti ce ne siano ancora, mi appassiono o almeno vorrei appassionarmi. Ma poi c’è tutto il resto, il grigiore, le pastoie, i venditori di fumo che dicono che far qualcosa per la P.A. è introdurre il principio che “ogni quattro che vanno in pensione se ne possa assumere uno solo”, la gente che crede a quelle parole bevendo tutto come gli asini alla fontana.
Scemo, sì, un po’ scemo mi sento. Forse tutti gli idealisti sono così: quando fanno i conti non si sentono realizzati ma solo un po’ più scemi di prima. Vedremo cosa succederà tra altri dieci anni. Sempre che resista, ovviamente.

Commenti

Anonimo ha detto…
io lavoro in un'azienda privata che ha la PA come cliente principale...e al grido "il cliente ha sempre ragione!" beh, chiaro che si deve sorridere e dire signorsi'...

e mi ritrovo di fronte a gente che al suo primo giorno ha deciso che non avrebbe lavorato MAI e gente che lavora davvero...

quello che mi da' piu' fastidio è chi - pagato con il denaro pubblico - non si rende conto di svolgere un servizio pubblico, non si rende conto dell'importanza del suo lavoro, anche se prende i documenti all'ingresso di un ministero (io poi vivo a roma....i ministeri...aggiungo altro???)...
o chi si aggira per i corridoi dicendo "eh....oggi sono entrato alle 7 (della mattina) e mi tocca stare qui ancora fino alle 14...
poi alle 11.00 lo chiami ed è "a pranzo"....

non sono tutti cosi', ma ce ne sono...uh! se ce ne sono...
Andrea Borla ha detto…
Uno dei grossi problemi è distinguere tra il piccolo/medio comune e il grande comune/provincia/ministero. Più l'ambienteè grosso più c'è possibilità di imboscarsi. Quando invece in un ufficio ci sono una o due persone non è materialmente possibile farlo e "ti tocca" lavorare.
Un altro problema è che dal punto di vista normativo non c'è differenza tra le PA di diverse dimensioni: devono ridurre dell'1% le spese del personale gli enti con 20-50-200-10000 dipendenti. Al di là della giusta volontà di eliminare (o anche solo ridurre) gli sprechi, forse sarebbe stato meglio inserire parametri differenziati. Ma era una cosa troppo intelligente.
L'ultimo dettaglio sono le persone: un sistema delle dimensioni della PA non può basarsi sul buon cuore. Non è un ente di volontariato. Non ci deve essere la scelta se lavorare o no: si lavora e basta come dalle altre parti.
E chi non lavora? Continuiamo pure a lasciarlo comodamente al suo posto perchè alle 11.00 "è a pranzo"... Non vorrei mai che qualcuno lo disturbasse mentre mangia!
Betty ha detto…
Dici che nei grandi comuni ci si imbosca? No, il mondo è paese e vale anche il contrario. La P. A. del mio paesino ha due dipendenti e sfido davvero a trovare altri Comuni con meno personale. Eppure l'imboscarsi è lecito: un dipendente passa il tempo al bar e non a prendere caffè e i mezzi del Comune li utilizza per fare la spesa per tutti gli abitanti del paese. Lavoro ce ne sarebbe, ma c'è sempre una scusa da avvallare (freddo - su questo non dico nulla - caldo altro da fare). Il buon cuore? Guai non averlo: per quanto sussistano i parametri per un licenziamento, il poverino è difeso a spada tratta, anche da quelli che lo definiscono fannullone. E i buoni che potrebbero fare del bene per la P. A. passano per crudeli, spietati, fautori di alcolismo.
Nei paesi piccoli non ci si imbosca: eventuali scorrettezze diventano lecite. E talvolta anche il mondo dell'impiego statale non è da meno... ma questo alla prossima volta.
Andrea Borla ha detto…
Non so. Alla fine sembra che non sia possibile generalizzare (non è che i dipendenti pubblici facciano quel che vogliono cazzeggiando a più non posso) ma nemmeno eliminare quelli che veramente fanno poco (la spesa per tutto il comune?!? gasp!). E allora? Se continuiamo di questo saremo sempre considerati dei lavoratori di serie b. E forse lo saremo veramente.
I cambi di mentalità sono lunghi a venire. Se poi ci si mette anche il blocco delle pensioni che impedisce il ricambio generazionale...
L'unica soluzione che ci rimane è la pestilenza selettiva? O la disinfestazione come contro i parassiti? No, ci vuole qualcosa di più serio.

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