Danilo Naretto e la concezione triste dell’allegria


Ricordo ancora quando, durante una presentazione, una voce dal pubblico mi disse che non era d’accordo con l’idea alla base del mio romanzo. Era In prima persona, e all’apparente vicinanza di alcune vicende al mondo reale mi veniva consigliato di contrapporre un certo distacco di spazio e di tempo. “Scrivi dell’Austria del ‘500!” fu la sentenza.
Mentre comincia la presentazione del romanzo La ciliegina all’occhiello di Danilo Naretto (Circolo Letture Corsare – giovedì 14 aprile), mi torna in mente quel pomeriggio di diversi anni fa. Non si tratta dell’Austria ma della Francia, non è il ‘500 ma il quattordicesimo secolo, ma il concetto è lo stesso: staccarsi da nostro mondo e dal nostro tempo per parlare proprio di quello che ci circonda.
Sullo sfondo della Guerra dei Cent’anni
, con le stragi e i drammi di un conflitto passato di padre in figlio (e in nipote e in pronipote), immerso nell’aria ammorbata dalla Peste Nera, si dipanano le vicende di un Robin Hood francese, tal Raymond Francois Marie de Plafond, fuorilegge fuori e cavaliere dentro.
Il registro è scanzonato e ironico, con un gusto per il gioco con le parole che permea tutto il romanzo. Ed è proprio il registro (la forma) che ha dato origine al libro (la sostanza), quasi una sorta di test con il quale Naretto ha messo alla prova la possibilità di raccontare con ironia una storia ambientata in un secolo realmente oscuro, dove la morte, la sofferenza e l’esibizione della violenza sono parte stessa della quotidianità. L’uomo scopre così che la parte comunemente definita disumana è strettamente connaturata al suo essere.
Il riso è la prima reazione a cui è spinto il lettore, ma il divertimento lascia spazio alla riflessione in pagine o in semplici camei di aneddoti e considerazioni profonde. Perché è il riso a salvare l’uomo, a consentirgli di staccarsi dalla gravità del mondo. Un riso amaro, tuttavia, espressione di quella che Naretto definisce concezione triste dell’allegria.

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