A piedi scalzi - Storie scorrette al tempo della crisi

Postfazione al racconto "Il domatore di aquiloni" di Massimo Maso in “A piedi Scalzi - Storie scorrette al tempo della crisi” - Racconti Corsari (ERIS Edizioni 2012)
Il rumore di passi lungo il corridoio avvicina un visitatore a una persona rinchiusa. Nel silenzio risuona l'azione di spostarsi per andare presso qualcuno. Avvicinarsi è il primo istante della conoscenza.
Rinchiuso in una stanza, Riccardo è perso in un mondo di ricordi trasfigurati che rielaborano costantemente un trauma. La sua è una mente chiusa, ma che sa esprimersi: sta a noi comprendere o intuire i segni del linguaggio che la governa.
La spiegazione di una mente e di un individuo, inevitabilmente parziale ma non per questo meno affascinante, passa attraverso l'approfondimento, il dialogo, la predisposizione, il contatto, l'intimità, la concessione di sé. La comprensione è la somma di queste azioni e di altre, alcune razionali e altre sfuggenti come un profumo dissipato dall'acqua piovana, precedute e guidate da una mano che sa tenere saldamente la barra: l'impegno e la predisposizione d'animo.
I mezzi che guidano alla comprensione sono i più disparati. Mentre leggevo il racconto di Massimo Maso mi è tornato alla mente un episodio di molti anni fa, quando avevo assistito a un reading di poesie scritte dagli ospiti di una struttura psichiatrica. La scrittura, e in particolare la poesia, era per loro l'equivalente di un aquilone da far librare nel cielo.
La conoscenza è anche ricordo del processo che ha portato a conoscersi. In un mondo che ha come unica materia il bianco, che contiene imprigionando "tutto ciò che può essere dentro e fuori di un uomo",  la realtà è priva di contorni come "una macchia infinita di nulla". La conoscenza limitata al banale non vale lo sforzo di avviare il processo che la rende possibile. Riccardo non vuole che gli venga rivelato il nome del suo interlocutore se non si tratta di un nome unico e particolare, distante dalla banalità delle persone che si sono susseguite di fronte a lui come volti indistinti e che, terminato l'incontro, hanno violato il patto che sta alla base della conoscenza: il non dimenticare.
Per conoscersi è necessario uno spazio neutro. Il bianco, nella sua assenza, può essere palcoscenico perfetto per mettere in scena un incontro di anime e menti. "È uno specchio vuoto, che annacqua i sogni" dentro il quale ognuno, dopo aver trovato la misura della propria angoscia, può andare incontro all'altro.
La conoscenza tra un uomo e una donna svela e nasconde particolari unici. In essa non c'è misura dell'intimità. Non c'è confine tra la nudità e il suo opposto. Si può essere più o meno vestiti, ma la nudità dell'intimo è una sola e definitiva. Una volta raggiunta è difficile tornare indietro, perché una parte di sé è già stata ceduta all'altro nell'istante in cui è divenuto depositario di conoscenze e visioni precluse ai più.
"Il domatore di aquiloni" ci conduce dalla conoscenza all'intimità, dal racconto di sé al racconto della libertà e della fantasia che avvince, dal bianco alla memoria. Il rischio di perdersi lungo questo cammino dipende dallo sforzo che chiediamo alla nostra immaginazione: "se non hai fiabe da raccontare alla tua donna non sarai nella memoria di nessuno".
La conoscenza che si mescola con l'intimità è preludio di un distacco che non avrà luogo prima di aver portato a galla i contorni di una mente e di un vissuto non più imprigionato. In quel momento la conoscenza, la liberazione e la trasfigurazione si sovrappongono trasformando la materia e l'identità in aria, in ricordo e in rimpianto. "Fossi arrivata prima (...) avrei saputo prendermi cura di te". Eppure non è mai troppo tardi per liberare un'anima dalla prigionia, specie se in buona parte auto inflitta.

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