Un alto concetto di dignità
Post fazione al racconto "Un alto concetto di dignità" di Anna Vera Viva
"Io Gino lo odiavo. Questo era
certo"
È uno strano modo per iniziare un
racconto presentato nella sezione "Solidarietà" di un concorso
letterario. Ed è forse questo il principale motivo per cui la Giuria ha deciso
di attribuirgli un premio speciale.
Il racconto di Anna Vera Viva muove i
propri passi della genesi dell'odio: dalla ricerca senza risultato della sua
origine in un attimo, un fatto, un episodio al seme che attecchisce
"silenzioso... innocuo, asintomatico" ed entra a far parte della vita
del protagonista per non abbandonarlo più. Tale sentimento è il "prologo
della nostra rovina", che si moltiplica e riproduce fino a diventare unico
punto di riferimento della vita del protagonista: l'odio, fomentato dalla
delusione, che negli anni si è affiancato alla rabbia e al disprezzo.
Il dualismo tra il protagonista e il
destinatario dei suoi sentimenti è profondamente marcato. Il primo fornisce di
se stesso un'immagine debole e decadente: un "vecchio rincoglionito",
un "piscia sotto" che non è mai stato un vincente, "un vecchio
pazzo (...) incontinente e polemico". L'analisi della sua vita evidenzia
sentimenti, speranze e delusioni che l'hanno accompagnato e portato a un
estremo gesto simbolico e liberatorio nei confronti di Gino, un personaggio
pubblico che impersonifica la classe politica italiana.
Gino è l'emblema della corruzione
materiale e morale, di chi è capace soltanto di parlare e di defraudare il
proprio paese, che non merita considerazione e che spinge "le sue famiglie
a emigrare per poter sopravvivere".
Molto interessante, sotto questo
profilo, è il secondo dualismo che presenta il racconto, quello che contrappone
due donne. Da una parte Rosaria, la moglie del protagonista che ama la sua
patria nonostante tutto, e dall'altra la figlia che, nata all'estero, non si
sente italiana e non comprende come si possa amare un Paese che "non fa
nulla per la propria gente".
È a causa sua e di quelli come lui se
gli emigranti non nutrono per l'Italia nostalgia o senso civico: non c'è nulla
da restituire a "un paese che non mi ha dato niente" e in cui non si
ritorna nemmeno per esercitare il voto. Sono questi i segni di una lontananza
che sa di frattura, causata da "clientelismo, appalti fittizi, corruzione,
(...) un marcio [che] non ama la solitudine".
Gino è anche "il furbo che la fa
sempre franca, che esce di scena prima di essere spazzato via da "qualche
ventata di pulizia che di tanto in tanto cercava capri espiatori al marciume
generale". E per questo deve essere punito, in un rogo che è simbolo della
fine augurata a tutta la classe politica. Eppure non è questa la causa del suo
assassinio.
Il protagonista prova ideali di
giustizia ma ammette che non è quello il volano delle sue azioni: "se ci
si muove lo si fa per sé". Compie un omicidio non tanto per l'odio
accumulato negli anni quanto per recuperare la propria dignità, per riprendersi
"quel che era mio. Un significato". Proprio questa consapevolezza gli
dà la lucidità necessaria per pianificare le proprie azioni con freddezza e
attenzione fino a osservare con fierezza il proprio "capolavoro".
"Un alto concetto di dignità"
getta uno sguardo in uno specchio nero, che riflette l'opposto della
solidarietà, un'immagine in negativo, un doppio oscuro, una nemesi. Grazie a
questo riflesso il lettore ha la possibilità di confrontarsi con la tentazione
vissuta dal protagonista e osservarlo mentre cede alla lusinga dello sfogo.
Vivendo quei momenti potremo decidere se e quanto valga la pena lasciarsi
soggiogare dall'odio nell'atto di punire una società più che un individuo.
Provare disprezzo e ripugnanza per un atto abietto o godere del piacere della
vendetta vissuto per interposta persona è una scelta che lasciamo a ognuno di
voi.
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