Libriamoci 2014

C'è una Giornata Mondiale per tutto. È un dato di fatto e lo si capisce  consultando l'elenco pubblicato da Wikipedia. Poi ci sono giornate che non sono mondiali ma restano pur sempre di tutto rispetto, come Libriamoci, un'iniziativa grazie alla quale vengono dedicati tre giorni alle letture nelle scuole.
Quando squilla il telefono non ho idea di quale sia il motivo. La chiamata (che qui assume un significato quasi religioso) ha dietro una storia da non sottovalutare. La Maestra Patrizia annuncia la ricorrenza di Libriamoci ai bambini della sua quarta elementare. Uno alza la mano: "Ma io conosco uno scrittore!" "E chi è?" chiede la maestra. "Andrea Borla!". Uno famoso, insomma.
E allora non si può non rispondere, non si può non presentarsi, non ci si può sottrarre a due ore di domande da parte di piccoli ma attenti esaminatori che, dello scrittore, vogliono sapere tutto, ma proprio tutto: il titolo del primo libro, perché scrivi, quanti libri hai scritto, quanto vieni pagato... soprattutto quanto vieni pagato per scrivere. Perché le passioni, per essere valutate in termini di qualità, devono essere monetizzate. E poi, se uno è scrittore è per forza famoso, e se sei famoso devi essere inevitabilmente anche ricco. Così è la vita.
E se dopo un po' diventa chiaro che lo scrittore non è necessariamente chi ha scritto un libro (per fortuna Buffon viene identificato come calciatore e Ligabue come cantante, e non per i titoli che hanno pubblicato), c'è ancora un po' di confusione tra l'importanza di un autore sotto il profilo letterario e l'essere famosi: "Mi dite il nome di uno scrittore famoso?" "Quella di Harry Potter!" Quella ringrazia per la considerazione. Un bambino, timidamente, tira fuori da sotto il banco un libro di Victor Hugo, L'ultimo giorno di un condannato a morte. Non so come faccia ad avere una copia di quel libro e perché la tenga con sé. Nessuno però conosce Hugo... e da un certo punto di vista la cosa mi dà sollievo.
Assodato che scrivo in italiano e che nessuno ha ancora deciso di tradurmi in altre lingue, una domanda sorge spontanea: perché sulla copertina c'è il nome dell'autore e non quello del traduttore? Generazioni di traduttori, sconosciuti ai più, si sono chiesti la stessa cosa molte volte.
"Anch'io ho scritto un libro!" dice una voce dalle retrovie. "Ma è finito dopo due pagine". E allora proviamo a fare come diceva Donaldson e cerchiamo assieme due o più storie che si intersecano e che si trasformano in un romanzo. Fino a quando le due ore a disposizione stanno per terminare e la gogna attende di essere usata.
"Gli scrittori oggi devono leggere qualcosa ai bambini" annuncia la maestra, ignara che io non leggo nulla in pubblico da anni e anni, da quella volta in cui un sacerdote mi sgridò davanti ai fedeli della messa domenicale per come incespicavo nelle parole durante la seconda lettura. E il fatto di trovarmi di fronte a dei bambini non mi tranquillizza per nulla, anzi, mi mette addosso ancora più inquietudine: e se si scoprissero più severi di quel che sembrano e in attesa di una vittima su cui accanirsi?
Ma mi faccio forza e leggo la fiaba di Quintino, quella che Daniela, la bibliotecaria, legge al piccolo Claudio, il figlio di Federico Lombardi in Di cose giuste e di cose ingiuste e aspetto che siano i bambini a decretare come va a finire la storia. Poi mi faccio mille domande come mio solito: sarà andata bene?, avranno capito?, non sarò stato noioso?, sarò stato esauriente?, cosa resterà di questa chiacchierata? Una sola cosa mi tranquillizza: quel "Non è vero che leggi male" pronunciato da un bambino e che alle mie orecchie suona come una grazia. Non tornerò a leggere in chiesa, ma mi fa piacere di non essere stato bocciato.

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