I racconti non vendono un ca**o
Riesumo dal mio hard disk la postfazione che ho scritto al racconto “MARCUS-21” di Alias, premiato nel concorso letterario Racconti Corsari del 2017. Lo faccio perché al Salone del Libro di Torino, nello stand
della casa editrice Las Vegas, ho potuto fare questa foto rivelatrice. E se i racconti
sono sempre considerati come sottoprodotti… allora è doveroso farne apologia.
Ricordare che sono fighi, insomma. Ricordarli non perché sono morti, ma perché
sono vivi e vegeti.
Il racconto si apre con una netta presa
di coscienza, una frase che il protagonista rivolge più a se stesso che al
lettore: io non sono una macchina. È un
monito grazie al quale riafferma la sua identità, ancor prima di spiegarci se e
come l’abbia persa. È un grido che, tuttavia, assume la forma della negazione:
non è Io, uomo contrapposto all’Io, robot di Asimov, ma un simbolo di
distacco e differenziazione, un confine che vuole tracciare laddove non ce ne dovrebbe
essere bisogno.
La letteratura fantascientifica, ma
anche quella di genere fantastico, ci ha infatti abituato a identificare l’uomo
come colui che progetta, realizza e usa le macchine, in una sorta di grottesca
imitazione del Creatore, e non come colui che sottolinea le sue debolezze nei
confronti della creatura e si fregia di essere diverso. Al di là della forma, la
diversità tra i due dovrebbe essere connaturata alla stessa sostanza, radicata
senza bisogno di ribadirla.
E grottesca, in un certo filone
letterario, è anche la pretesa della macchina di assurgere a una condizione più
alta, quella che, se non umana, potrebbe perlomeno essere umanizzata. Replicanti sempre più simili ai loro creatori scalano
la via verso la perfezione, irraggiungibile ancor più perché il metro di
paragone è l’uomo e non Dio. Sono così perfetti
da non poter essere distinti dai loro creatori nell’aspetto e nel comportamento,
e così simili a noi da lasciar presagire la nascita di un’anima o di una
coscienza.
Sotto questo profilo Marcus-21 trova un importante elemento
di originalità: la macchina non vuole diventare umana e l’uomo non vuole essere
superiore ma solo diverso.
Il confronto tra i due è inevitabile e
il responso sembra pendere a favore della macchina, più perfetta nei rapporti interpersonali, nelle prestazioni, nell’immagine
e soprattutto (o di conseguenza) nel lavoro, tanto da meritare la promozione agognata
dal protagonista. La goccia che fa traboccare il vaso è proprio la misura del successo
personale e l’acqua che ne fuoriesce assume la forma della rabbia e della
distruzione.
L’uomo sembra riconquistare il primato
sulla macchina: vince la sua battaglia e sottomette l’avversario, annientandolo
in un gesto che ricorda i sabotaggi messi in opera dai luddisti inglesi, gli
aderenti al movimento insurrezionalista di protesta operaia dell'inizio del XIX
secolo. La differenza tra un telaio meccanico e un androide di ultima
generazione, tuttavia, non tarda a mostrarsi. Chissà che faccia avrebbe fatto
il giovane Ned Ludd se il macchinario che aveva appena distrutto si fosse
autoriparato di fronte ai suoi occhi senza bisogno di intervento da parte dei
suoi creatori.
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